13
04
2020

Il Coronavirus e l’istinto del raccoglitore.

Di Antonio Pellegrino

Che cosa strana il vuoto pieno. Il vuoto dell’assenza relazionale, il pieno del chiuso in casa. Per chi come me vagabonda nel paese tra le pietre, tra le case, pare il giorno di natale. Il vuoto, il pieno, la differenza la fanno i germogli sugli alberi e le televisioni che, come gli oracoli, annunciano la sciagura a chi si accompagna al divano. A posto del panettone, i banditori dell’informazione. Ascolto, a caccia di vita, oltre la storia dei muri, dei portali e dell’abbandono. Cerco normalità. Eccola la norma, quello che è normale. In questi giorni che precedono il solstizio di primavera, l’infinitamente piccolo, mette paura alla macchina umana dell’antropocene. Questi giorni saranno la normalità del vuoto pieno. Tutto è pieno, ma tutto è vuoto. Si è svuotata di un colpo la sacca del tempo e si è riempita la sacca dello spazio. Rallentiamo e di brutto, ci fermiamo, restiamo a casa, riempiamo la casa. Stiamo tornando a noi, al nostro nido, e forse torneremo anche ai nostri boschi. Anche se oggi è già cambiato il mondo, perché il mondo cambia sempre, questa volta lo fa la natura senza di noi. Il virus ferma l’economia e i corpi dell’economia. La primavera di quest’anno sarà quella dei consumatori impauriti più del solito. Questo è quello che mi fa più paura. Il bosco lo cito solo per verità indigena, perché so, come sapevano gli avi dell’appennino, che il primo nido è quello. A quelli come me, che hanno visto sempre sputare nel fuoco, hanno insegnato anche a fare la pipì sulle ferite. Io mi ricordo l’ovatta e l’odore di spirito solo nella malattia vera, per il resto c’era la vita. Penso a mia figlia che ricorderà le mascherine dopo carnevale, qualcosa di simile alla corona delle sue principesse, ed una paura collettiva che ancora non può capire. Eppure il vuoto pieno del mio paese è quasi euforia per me, sento che il vuoto è dappertutto, e pure le mie strade somigliano a quelle della mondanità. Per assurdo, non c’è spopolamento nella paura. Sento pure il pieno, e devo domare la mia euforia perché mi rattrista il palinsesto dell’emergenza e dell’imbonimento. C’è sempre tutto e il contrario di tutto nella scatola magica che torna regina del salotto. Il coronavirus è entrato nel nostro salotto molto prima di entrarci e speriamo non ci entri dalla porta. Intanto, ora che si è svuotato il tempo, impareremo che la pandemia è una forma di globalizzazione. Questa lezione, che il tempo lo fa il padrone, è vecchia come lo sputo nel fuoco. Questa volta torna padrone il tempo della natura e a noi non ci resta che addomesticarla, lo abbiamo fatto già tante volte se siamo qui. Mi chiedo solo se non l’addomestichiamo con la stessa ingenuità con cui pisciavamo sul palmo della mano graffiato con una caduta dalla bicicletta. Molte volte non sappiamo quello che facciamo, non ne conosciamo gli esiti e lo facciamo perché c’è lo fanno fare. Non la legge, ma le leggi. Ora non dobbiamo uscire di casa, perché la malattia è vera ed è tornato l’odore di spirito che mi ricordo da bambino. Questo è quello che so di me e del mio paese stanotte e proprio mentre chiudo questo scritto, ascolto le gru migrare che si fanno sentire come ogni anno. Io non sono un cacciatore, ma sento in me un istinto del raccoglitore, di colui che vive di ciò che la natura spontaneamente offre. In questi giorni andrò a fare asparagi così come stanotte ho raccolto il mio umore e quello del mio paese al tempo del coronavirus. Dove tutto è vuoto e tutto è pieno io non ho paura di morire, ho paura che ricominceremo peggio di prima.

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